Ascoltare gli altri è un dovere assoluto, e una prerogativa irrinunciabile. Anche quando le parole tentano di ferirti, o più semplicemente esprimono un’opinione diversa dalla tua.
Fra i tanti commenti al mio ultimo post, un paio (due, per l’appunto) m’hanno rimproverato di godere d’una posizione privilegiata, poiché ho “ereditato un’azienda”.
Al netto degli scongiuri di mio Padre, vorrei ricordare che, assai spesso, nell’industria, la prima generazione costruisce, la seconda conserva, la terza distrugge. Essere parte della terza non è esattamente un privilegio: è, prima di tutto, una responsabilità.
Enorme, perché Ti mette a confronto con chi è venuto prima di Te, e ha saputo far bene. Ma passiamo oltre.
Non comprendo il motivo per il quale 6 mesi di autonomia siano un banco di prova, anche per un’impresa giovane, così insostenibile. O, meglio, credo di capirlo perfettamente: ed ha a che fare con la stessa responsabilità che grava sulle mie spalle. Quella che ciascuno di noi, che pretende di essere datore di lavoro, ha nei confronti dei propri collaboratori . Potrò sembrare arrogante e presuntuoso, ma ad animarmi è solo l’onestà: non puoi illudere chi affida il suo futuro nelle Tue mani, se hai il fiato corto. Servono polmoni robusti, respiro profondo; serve credibilità che devi conquistarti sul campo. Che Tu diriga un gruppo industriale con cento anni alle spalle, o una start up, il miracolo del fare impresa è esattamente questo: crederci al punto tale che gli altri ti credano, per creare il bene comune. Comprendo anche il punto di vista di chi ha espresso critiche, perché so quanto possa essere difficile resistere in un contesto che non ti aiuta. Ma qui sta il punto, e la ragione della scarpa di Kruscev sbattuta sul desco.
Siamo stati abituati, negli ultimi 40 anni, a un’idea di “società” illusoria e fuorviante, nella quale il conto lo pagano sempre gli altri, e la colpa e la responsabilità sono sempre altrui. Se le cose non vanno come pensiamo dovrebbero, ammettiamolo, è perché ci abbiamo messo del nostro. Ci siamo autoesclusi dalla responsabilità politica del Paese, affidandola ad altri, convinti che ci avrebbero pensato loro.
Credo, fermamente, che sia invece giunto il tempo di assumerci le nostre colpe e le nostre responsabilità, e metterci la faccia in prima persona. Perché in questo momento, noi e non altri, non siamo chiamati a scegliere per noi stessi: dobbiamo decidere se, a pagare il conto del disastro attuale, saremo, responsabilmente, noi, o, ancora una volta, la prossima generazione, cioè i nostri figli.
La sfida è tutta qui, monumentale, ma non impossibile: dobbiamo fare presto, dobbiamo fare bene.